«La Chiesa ha perso un pastore, l’umanità ha perso un padre». A 60 anni dalla morte di Papa Giovanni XXIII
Fine maggio 1963. In Vaticano giungono molte lettere che esprimono pena e preoccupazione per la salute di Papa Giovanni XXIII. Tutti promettono di innalzare al Signore fervide preghiere per ottenere la grazia, implorata non soltanto dai cristiani, ma anche da persone di altre fedi. Alcuni sottolineano che la guarigione del Papa è necessaria per dare prosecuzione al Concilio e per compiere la missione di pace che caratterizza il suo pontificato. Senza di lui, il mondo rischia di ripiombare in una lotta senza fine, quella lotta che egli ha cercato di vincere con il ritorno del «Vangelo sine glossa». Molti rievocano ricordi pieni di gratitudine per i tanti segni di bontà ricevuti personalmente dal Papa, per il «grande respiro» che egli ha dato alla Chiesa, come nell’indimenticabile discorso «Gaudet mater Ecclesia» dell’11 ottobre 1962. C’è chi sottolinea la straordinaria dignità e serenità con cui il Papa affronta il dolore, offrendo la sua vita per l’unità della Chiesa e per la pace dei popoli.
Tra i messaggi indirizzati al Pontefice malato, spicca quello di monsignor Josyf Slipyj (1892-1984), vescovo di Leopoli, in Ucraina. Qualche mese prima, in febbraio, dopo un processo-farsa a Kiev e otto anni di carcere e di esilio in Siberia per l’accusa di attività anti-sovietica, ha potuto finalmente abbracciare il Papa, che si è speso per la sua liberazione. Scrive: «Beatissimo Padre, quando ovunque circolano le dolenti notizie sulla salute di Vostra Santità, alla mia memoria giunge sovente il ricordo di un canto popolare ucraino: “Oi hore velyke na dim naŝ upalo, – Naŝoho batenka neduha vialyt” (“Un grande dolore è caduto sulla nostra famiglia, – Il nostro babbino è afflitto dal male”). In questa canzone popolare si racconta che il padre di una numerosa, ma modesta famiglia, lavorava in un bosco tagliando legna e togliendo erbacce; ormai esausto viene colpito da un tronco cadente ed è portato in casa e adagiato sul letto. Intorno gli stanno i suoi numerosi figlioletti, che inginocchiati con le lacrime agli occhi pregano Iddio per la salute del loro buon papà, senza rendersi conto del loro futuro incerto. Questo quadro ci sta oggi dinanzi agli occhi con l’interminabile schiera dei figli di Vostra Santità, che inginocchiati in ispirito intorno al letto del dolore del Santo Padre, con le lacrime agli occhi in tutto il mondo innalzano le loro fervide preghiere al Signore».
2 giugno 1963, domenica di Pentecoste. Giornata mesta. Nel Palazzo apostolico, il viaggio del Papa verso l’eternità è cominciato. Attorno a lui e nelle stanze vicine, c’è la sua famiglia: la sorella Assunta, i fratelli Zaverio, Giuseppe e Alfredo, in ginocchio, guardano il fratello distrutto dal male e piangono. Il nipote don Battista e le nipoti suore si alternano al capezzale tergendogli il sudore. Il segretario, monsignor Capovilla gli tiene una mano. In camice bianco vegliano i medici, i professori Gasbarrini e Mazzoni. Tutti pregano in silenzio. Di fuori viene il ticchettio insistente della pioggia e il suono delle campane. Le ore dell’agonia trascorrono lente, eterne. La febbre sale ancora. Spesso il Papa chiede un po’ d’acqua e la sorseggia dalla tazza con le labbra aride. I medici scuotono la testa e lasciano fare. Arrivano poi i cardinali e i prelati della Curia. Per lo più rimangono in salotto o si affacciano un attimo alla porta della biblioteca.
A nome della Comunità Ebraica di Roma, il rabbino capo Fausto Pitigliani, dirama un comunicato: «Gli Ebrei della Comunità israelitica di Roma sono molto rattristati per le disperate condizioni di salute del Pontefice. Giovanni XXIII in quattro anni di pontificato è riuscito a portare in molti atti del suo altissimo ufficio quel senso di umiltà, di comprensione umana e di chiarezza delle quali il mondo aveva e ha estremo bisogno. Pur parlando egli a nome dei cattolici di tutto il mondo, è riuscito con la sua parola e con le sue azioni a superare le barriere delle varie confessioni religiose, della politica, delle divisioni nazionali, delle discriminazioni e delle incomprensioni che avvelenano i rapporti tra gli uomini e tra i popoli».
3 giugno 1963, ore 19,50. Dopo 4 anni, 7 mesi e 6 giorni di pontificato, Giovanni XXIII muore. Eccettuato quello di papa Luciani, il suo è il pontificato più breve del Novecento, anzi, degli ultimi due secoli di storia della Chiesa. Si può applicare anche a Papa Roncalli quanto si legge sul sepolcro di Papa Gregorio XI in San Pietro: «Ostensus magis quam datus», ci fu mostrato, più che donato. Con la sua morte, la Chiesa ha perso un pastore, l’umanità ha perso un padre. Tutti si sentono un po’ orfani. Il pastore Westpal, Presidente della Federazione protestante di Francia, dice: «Per la prima volta nella storia i protestanti piangono un Papa e partecipano al dolore della Chiesa di Roma». A Londra, il dott. Fisher, Primate d’Inghilterra nella Chiesa anglicana fino al 1961, dichiara: «Con la morte di Papa Giovanni, molti cristiani di tutto il mondo sentono di aver perso un amico. L’amicizia: questa era la sua grande virtù. Amico si dimostrò verso tutti gli ecclesiastici di tutte le chiese, anzi, perfino verso coloro che stanno fuori del loro ambito. E fu appunto questo suo ovvio desiderio di amicizia verso i suoi fratelli cristiani che mi spinse a recarmi a Roma per conoscerlo. Erano più di 400 anni che un arcivescovo di Canterbury non parlava a un Pontefice. Eppure, al momento dell’incontro, non ci fu nessun senso di imbarazzo. Dopo alcuni minuti stavamo già conversando con la disinvoltura e la cordialità di vecchi amici sulle nostre esperienze spirituali di cristiani […]. Si potrà pensare che l’amicizia non costa nulla e non cambia nulla. In verità essa cambia tutto e, alla fine, è la cosa più preziosa che esista».
Dopo i funerali, i fratelli del Papa tornano subito a Sotto il Monte e riprendono i ritmi ordinari che i giorni del lutto hanno bruscamente sconvolto. Monsignor Cavagna, confessore del Papa, cerca di consolarli così: «Voi avete perso un fratello Papa, ora avete un fratello santo». Anche loro sono rimasti colpiti dalla folla immensa che per giornate intere ha reso omaggio al Papa: «Credevamo di sapere soltanto noi quanto fosse buono, invece aveva fratelli in tutto il mondo, tutti gli uomini», afferma il fratello Zaverio.
Il poeta Giuseppe Ungaretti scrive: «Papa Giovanni verrà ricordato come l’uomo più umano di questo secolo. Ha reso visibile agli occhi di tutti la santità». Quella che ci lascia, però, non è un’eredità comoda. Con la «Mater et Magistra» ha ricordato a tutti che tutti sono responsabili della fame di tutti. Con il Concilio Vaticano II ha ammonito che lo scandalo più grande è la divisione dei cristiani e che il mondo va guardato come un mondo da salvare, non da condannare. Con la «Pacem in terris» ha ribadito che tutti sono degni e capaci di pace, e che dunque tutti ne sono immediatamente responsabili in ogni ordine della vita umana.
Giovanni XXIII ha guardato lontano, con una prudenza pari al coraggio. Ci ha insegnato a sperare. La sua lezione è ben riassunta in ciò che il cardinal Feltin, arcivescovo di Parigi, diceva ai suoi preti: «Vi si chiede di essere presenti al vostro tempo. Ma io vi dico: siate già gli uomini di domani; perché l’oggi non ha più senso se non in quel domani che porta già in sé».
Ezio Bolis
(Le fotografie sono annotate da mons Loris Francesco Capovilla)