Alberto Fortis in visita alla Fondazione Papa Giovanni XXIII
Un pomeriggio autunnale pieno di sole. Alla Fondazione Papa Giovanni XXIII è venuto a trovarci Alberto Fortis, desideroso di conoscere più da vicino Papa Giovanni, del quale ha ricordi lontani ma ancora vividi: quand’era bambino, il 3 giugno 1963, giorno del suo compleanno, aveva assistito davanti al televisore alla morte del “Papa buono”. Ora le sue mani tremano nel toccare i piccoli taccuini sui quali Roncalli, appena quattordicenne, annotava i suoi pensieri. Ne approfitto per fare qualche domanda al noto cantautore e musicista.
Alberto, come ti definiresti?
Domanda difficile. Mi sento un libero battitore artistico. Mio padre è bergamasco, vengo da una cittadina piemontese, Domodossola, e approdo prima a Milano, poi negli Stati Uniti. Nasco come batterista ma in seguito il mio strumento principale diventa il pianoforte. La mia musica è cambiata, come sono cambiati i tempi.
Che ricordi hai del Collegio Rosmini, dove hai trascorso la tua adolescenza?
Lì ho frequentato le medie e il liceo classico, ricevendo una formazione solida, talvolta fin troppo severa. Con il tempo ho capito la fortuna avuta e non ringrazierò mai abbastanza chi mi ha insegnato a tenere la barra dritta nella navigazione della vita; e in un lavoro come il mio, dove è facile avere tentazioni e sbandamenti, questo è molto importante. Da Rosmini, oggi beato ma per molto tempo guardato con sospetto dalla Chiesa per le sue critiche, ho assimilato il coraggio di azzardare.
Chi ricordi dei tuoi insegnanti?
Uno in particolare, don Tullio Bertamini. Religioso rosminiano, insegnava matematica e fisica, poi divenne preside. Era stato allievo di Enrico Fermi, che l’avrebbe voluto suo collaboratore, ma egli preferì continuare a insegnare al collegio, per amore di Rosmini e dei suoi studenti. Uomo autorevole, tutto d’un pezzo, riuscii a trascinarlo in una foto di copertina su “Sorrisi e canzoni tv”. In seguito, quando mi incontrava, mi chiedeva: “Fortis, fai ancora il saltimbanco?”.
Quando hai scoperto la vocazione per la musica?
Verso gli undici-dodici anni suonavo la batteria nella band del collegio. Al pianoforte c’era Umberto Benedetti Michelangeli, nipote del grande Arturo. Poi, a diciassette anni, mi sono fiondato sul pianoforte e quello è stato il passo decisivo. In quei mesi, quasi a fare da contrappeso alla dura prova per la morte prematura di mia madre, mi è arrivata l’ispirazione di scrivere una suite musicale che poi è diventata il mio secondo album: “Tra demonio e santità”. Lì sono confluiti anche echi dei miei studi classici, come la Divina Commedia, che ho apprezzato grazie ai miei insegnanti.
Qual è stato il tuo percorso spirituale?
Per me la ricerca spirituale è la vita. Sento molto la bellezza del confronto e della conoscenza reciproca, anche a livello di esperienze religiose. Sono stato educato nella fede cristiana e cattolica dove la figura di Cristo è decisiva. Questo non mi ha impedito di avvicinare la spiritualità indiana e quella dei nativi americani. Lì ho scoperto una religione più carnale, ma intrisa di spiritualità.
Nei testi delle tue canzoni spicca la carnalità di esperienze umane quali l’amore, la sofferenza, la morte…
Associo questa carnalità al leggendario guerriero della luce, Escalibur: è la forza di non sottrarsi a nessuna chiamata della vita, di condurre quel combattimento spirituale che significa testimoniare il bene a ogni costo. Questo vale anche per un lavoro come il mio, sulla scena pubblica: ciò che scrivo, come mi comporto, quello che faccio, deve essere la piccola goccia pulita che porto nell’oceano del mondo. Prendi “Imagine”, di John Lennon: è la geniale semplicità di un bicchiere d’acqua, non semplicità spontanea ma frutto di un percorso faticoso. Questo mi piacerebbe che i giovani musicisti cercassero.
Il genio della semplicità: sembra una definizione perfetta di Papa Giovanni…
Sì, sono d’accordo. Associo spontaneamente Papa Giovanni allo spirito francescano. Ho percepito una sensazione simile pochi anni fa, incontrando Papa Francesco. Gli ho consegnato una canzone intitolata “Al di là”, scritta per lui. Mi ha chiesto accoratamente di pregare per lui.
Che cosa significa pregare?
Per me pregare significa celebrare la nostra esistenza, che cioè Qualcuno ha voluto che fossimo qui. Chiudendo i miei concerti dico sempre che la nostra vita è come fiore che cresce sul ciglio della strada senza chiedere niente a nessuno, sempre pronto a farsi cogliere da chi davvero lo sa riconoscere.
Suona il citofono. È Marco Porritiello, batterista e amico di Alberto Fortis, accompagnato dalla mamma, Bruna Roncalli, parente di Papa Giovanni. La signora ha tanto da raccontare: tra le carte che ha portato, mostra la lettera che il Papa le fece recapitare per il suo matrimonio, insieme a una banconota di 50 mila lire come regalo di nozze. E gli occhi le brillano ancora di commozione.
Ezio Bolis